“….. più alla buona, consideriamo che la pedofilia è stata, per secoli e fino ai nostri giorni, una pratica sessuale maschile sostanzialmente tollerata dalla società e, talvolta, rivendicata con orgoglio dagli interessati. Negli anni settanta, per fare solo un esempio, io ho tradotto, per l’editore Feltrinelli, un saggio, Co-ire, che era un inno, raffinato ma scoperto, alla pedofilia. Oggi sarebbe un libro da bruciare. Secondo gli esperti, un quindici percento della popolazione adulta o quasi (gli adolescenti) sarebbe sessualmente attratta dalle persone più piccole. Se questo è vero, potete misurare l’enormità di quello che consegue … riferimento alla imminente approvazione della legge
si tratta, d’altronde, di una legge pensata e approvata sull'onda di un allarme sociale. Dovuto a che cosa? Quando, di colpo, i giornali cominciano a riempirsi di notizie che prima ottenevano poco spazio e poca attenzione, ci si chiede a che cosa ciò sia dovuto, se a un cambiamento delle cose in sé o al nostro modo di valutarle.
Secondo alcuni, sarebbe cambiata la pratica della pedofilia in sé. In particolare, Gabriele Levi, neuropsichiatria, ha sostenuto che, con la civiltà delle comunicazioni di massa, la popolazione dei pedofili ha perso l’aiuto del controllo sociale, e si trova abbandonata a se stessa, in preda a pulsioni aggressive. D’accordo a giudicare da certi fatti di cronaca nera. Altri dicono invece che siamo cambiati noi (“noi”= i non pedofili), nel senso che siamo diventati più attenti ai diritti dei minori e non tolleriamo più certi abusi degli adulti. D’accordo anche con questi. Resta però che, secondo i magistrati intervenuti, non dobbiamo illuderci che la legge possa risolvere il problema degli abusi sessuali sui minori. E, allora, perché l’abbiamo fatta? E la pedofilia, è solo abuso?

Più che guardare alla realtà in sé o, viceversa, alla nostra visione della realtà, proviamo a collocarci nell’interfaccia fra le due. E’ qui, secondo me, cioè nello scambio fra la realtà che cambia e le nostre interpretazioni, che si può capire meglio quello che ci sta capitando.

Nei commenti, colpisce l’enfasi, fino a pochi anni fa inconcepibile, sulla pericolosità della famiglia per i suoi membri più piccoli. La famiglia non è più un sacro rifugio, sembra anzi che sia diventata un luogo infido da tenere sotto controllo o, nella migliore delle ipotesi, da assistere costantemente. In questo quadro nuovo e allarmante, colpisce specialmente la dimenticanza dell’opera materna. Dice, per esempio, il già citato neuropsichiatria, parlando di quei bambini - la stragrande maggioranza – che non vanno al nido: “Io chiedo che cosa fa   questo novantaquattro percento, con chi passa il tempo e come?” e si risponde: “Io personalmente lo so. Affidati a babysitter di passaggio, a nonni malandati, a madri disoccupate e frustrate, nel retrobottega di un negozio” (l’Unità, 9 luglio 1997).

Niente di quello che è dato osservare in un paese come l’Italia giustifica parole così amare e, in fondo, sprezzanti. Che però si spiegano se consideriamo quella che ho chiamato l’interfaccia: questa instabile e sensibilissima superficie di scambio fra quello che capita e quello che ce ne diciamo (e il come lo diciamo), ha registrato la fine del patriarcato. Da ciò segue che la famiglia non si trovi più, com’è stato per secoli, messa sopra la legge e preclusa a ogni controllo sociale. Di colpo, i suoi misfatti sono diventati evidenti, mentre viceversa – ma per la stessa ragione – sta diventando invisibile l’opera di civiltà svolta quotidianamente dalle donne attraverso il sistema dei rapporti familiari: con la fine del patriarcato, infatti è cascata la cornice che le dava risalto. Nel linguaggio dei mass media, a imitazione di quello degli esperti, questa perdita di dignità si traduce nella scomparsa di parole come “madre” o “mamma”, sostituite da termini neutri come “genitore”, “persona adulta”.

Tutto questo si cala con un clima di ansia del corpo sociale. La crescente preoccupazione per i bambini, infatti, non risponde a un intento chiaro e coerente della nostra società, basta pensare alla nostra tolleranza di usi e costumi (come l’abnorme traffico automobilistico all’interno dei centri abitati che hanno tolto lo spazio vitale ai bambini, costringendoli a fare la vita dei reclusi o dei sorveglianti speciali. Altro che pedofili, verrebbe da esclamare. La nostra preoccupazione per i bambini sembra piuttosto un sintomo. Di che cosa? Qualcuno ha parlato di “sensi di colpa” della società adulta verso i bambini, notando fra l’altro il sensazionale calo delle nascite registrato dall’Italia nell’ultimo decennio. L’inaudito sviluppo economico che ha portato benessere, comodità, vita più sana e lunga a larghi strati della popolazione, si porta forse dentro una segreta ingiustizia verso l’infanzia? Una sottrazione d’amore? La perdita del suo incantesimo?

La storia può aiutarci a capire. Capita ogni tanto, nella storia, che la società sia presa dall’ansia per i bambini. Specialmente nelle epoche di passaggio, quando molte cose cambiano in fretta, capita che l’infanzia appaia esposta a oscure minacce: l’infanzia delle nostre creature piccole, proiettate verso un futuro che non riusciamo a immaginare, o la nostra, smarrita in un passato di cui sentiamo che non resterà memoria?

La nascita del mondo moderno, in Europa come in alcune colonie nordamericane, si sa che è stata accompagnata dalla caccia alle streghe, e alle streghe, fra tanti mali, si imputava quello della mortalità infantile.

I pedofili sono le nostre streghe? Deve averlo pensato anche Anna Serafini, prima firmataria e relatrice della legge per la repressione della pedofilia. “Non ci sarà una caccia alle streghe” ha detto dopo la sua approvazione, rivelando così l’associazione mentale che lei stessa aveva fatto. Anna Serafini, oltre che deputata, è femminista e il particolare va notato, perché negli anni settanta, l’associazione era fra le streghe e le femministe. I bambini c’entravano anche allora, se pensiamo al divorzio e all’aborto, la cui istituzione legale si decise proprio in quegli anni, e al massiccio abbandono dei ruoli tradizionalmente assegnati alle donne nella famiglia (e non soltanto).

Ma adesso la femminista si trova dall’altra parte, quella, se così posso esprimermi, dei “cacciatori di streghe”. Naturalmente, lei protesta che no e io le credo. Ma (a parte che, fatta una legge, questa opererà indipendentemente da chi l’ha voluta) resta che Anna Serafini, una femminista, dà il suo nome a una legge che ha molte caratteristiche di una reazione difensiva maschile alla rivoluzione femminista. Avendo ascoltato le considerazione degli esperti intorno alla questione pedofili, si ha infatti la netta impressione che essi tacciano qualcosa che somiglia a un risentimento maschile per l’iniziativa presa dalle donne nella più recente trasformazione della vita familiare e sociale. Tutto indica che, senza dirlo, il grosso degli uomini abbia precisamente registrato la fine del patriarcato, la fine cioè del loro privilegio sociale e simbolico, ma niente altro: niente presa di coscienza, niente accettazione e niente in fatto di conseguenze positive, esclusa una minoranza di uomini che sembra crescere, ma rimane nettamente tale. Ed escluse, probabilmente (bisognerà poi vedere), le giovani generazioni……..”

In Luisa Muraro, La folla nel cuore, Pratiche Editrici, Milano 2000, pp. 124-129

 

 


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