La vera perdita dell’innocenza
di Monica benedetti
Tratto da Via Dogana Maggio\Settembre 2005.

 

“Solo da pochissimi anni ho cominciato a parlare con le donne (e con qualche uomo) della violenza sessuale che ho subito da bambina. La reazione altrui era, in genere – superato il primo sbalordimento – di compianto solidale seguito poi da forti parole di protesta e di condanna contro l’autore del fatto e contro i suoi “complici”. Questa reazione sdegnata e rabbiosa era ciò che io più mi attendevo: il mio racconto stesso, infatti, era indirizzato ad ottenere questo effetto. Sottolineavo la mia età infantile, la connivenza di genitori e parenti, il panico che mi ha reso impossibile chiedere aiuto a persone esterne al nucleo familiare. Fondamentalmente, sentivo che mi era accaduto qualcosa di irreparabile. Ero stata scelta a caso e deliberatamente condannata; ma soprattutto mi sentivo una vittima innocente e odiavo chi, nella mia fantasia, mi aveva resa tale, perciò godevo nel sentirli insultare da altre donne.
Oggi non è più così: da poco tempo ho trovato una modalità nuova per ricordare e per raccontare questa vicenda, che mi permette di mettere al centro di essa la mia forza e non la mia debolezza. È venuto a cedere l’odio, ciò da cui per anni ho tratto consolazione e una forma di godimento molto povera e subdola. Al suo posto, nella mia vita è entrata una consapevolezza nuova a rovesciare la miseria della realtà di ieri: si può fare a meno di vivere sulla “rendita della vittima”, si può smettere di piangere e lamentarsi e si può, infine, sottrarre la propria complicità all’edificio della paura e del rancore contro gli uomini.
L’uomo considerato potente e forte, nelle mani del quale ho visto per anni imprigionata una parte molo intima della mia esistenza, cominciava ad apparirmi un essere debole e derelitto, abbandonato alle proprie frustrazione aggressive, ma di fatto impotenti e forse incapaci di dargli un’autentica soddisfazione. E gli altri, silenziosi spettatori, come uomini e donne privi di autorità e di forza per lottare, quindi la loro non era tanto indifferenza nei miei confronti, ma piuttosto una sorta di passività stordita capace di anestetizzarli in molti altri frangenti della loro esistenza quotidiana.
Ripensando poi a me, parlando di me con una lingua nuova, non sapevo più bene chi fossi stata in quella circostanza. Il mio corpo mi appariva sempre di più come una sorta di campo di battaglia su cui si era combattuta una guerra altrui, uno scontro di solitudine, di mancanza di pensiero e di poco amore per la vita. Problemi questi, ora mi è chiaro, che non erano e non sono i miei, visto che la lingua nuova che oggi mi parla me l’hanno insegnato donne capaci di lottare e di avere cura di sé e elle persone e cose amate, capaci di porsi al centro della propria esistenza accettando anche la sofferenza necessaria come un’esperienza e una fonte di sapere – una fra moltissime altre. Questo atteggiamento, questo incedere regale (Dante, a proposito di S. Francesco, Paradiso, XI) nel mondo, ho imparato dalle donne a chiamarlo signoria. La signoria propria di alcune donne mi ha insegnato come il “fare la vittima” non ti tiene al centro di un’esperienza, ma te ne getta ai margini. Ai margini puoi lamentarti e piangere e condannare, ma l’abito di impotenza che ti si incolla addosso rende impossibile ogni forma di protagonismo nei confronti della tua vita, il cui andamento viene di fatto delegato ad altri: nella fattispecie, agli uomini “sani” pronti ad avventarsi sugli stupratori, alla Legge, alla riprovazione pubblica.
Una delle donne che con più efficacia mi ha mostrato come signoria e vittimismo siano inconciliabili è Etty Hillesum (Diario, Adelphi).
Attraverso il suo diario, mi ha raccontato il suo modo di porsi al di sopra della violenza, la sua assoluta resistenza a rivestire il ruolo di perseguitata che altri (i nazisti, ma anche gli ebrei) si attendevano da lei.
Nel giugno 1942, affida al suo diario la seguente riflessione: “Per umiliare qualcuno si dev’essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria” (p. 126).
Anche se la lingua che oggi mi parla mi rende una donna capace di far “evaporare” nell’aria l’umiliazione e la paura, c’è comunque qualcosa di questa mia esperienza che non potrà mai essere compensato da alcuna pratica di intangibilità interiore.
Mi riferisco alla sofferenza della bambina che sono stata, quella che ha vissuto nella propria carne l’esperienza di cui la mia mente e il mio cuore possono scrivere oggi. Parlavo con un’amica, qualche giorno fa, e cercavo di ricordarmi bambina. Le dicevo: credo che la sofferenza maggiore non scaturisse dall’utilizzo che quell’uomo ha potuto fare per anni di me, ma dal senso di abbandono avvertito inequivocabilmente, dovuto all’inerzia degli adulti più prossimi. All’età di circa sei anni ho saputo che mi sarebbe potuto accadere qualunque cosa e che nessuno mi avrebbe aiutata in alcun modo. Ho saputo che tutti sapevano, ma che per motivi a me incomprensibile avevano deciso di lasciar correre. Dovevo imparare a cavarmela da sola nel mondo. Ma una bambina di sei anni non sa cavarsela fatto. È stata questa la vera perdita dell’innocenza, non quella dovuta al fatto sessuale.
Il bisogno disperato di amare i miei genitori e di credere nella loro buona fede mi ha fatto ben presto scordare questa intuizione, di cui probabilmente non potevo sostenere la verità, ma nello stesso tempo mi ha convinta di essere una bambina di poco valore, che non valeva la pensa salvaguardare più di tanto. Quell’amica mi ha detto che di dovrebbe essere “un’età dell’innocenza” per tutti, bambine e bambini, affinché si possa crescere al sicuro e sentirsi creature preziose e inviolabili.”

        

 


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